Interruzione volontaria di gravidanza in strutture protette:tutela sociale della vita e dei diritti delle donne.
IL SERVIZIO NON È ATTIVO, L'ARTICOLO HA UNO SCOPO INFORMATIVO
ARTICOLO A CURA DEI GINECOLOGI GIUSI ACQUAVIVA E FABRIZIO SAPIA.
Oggi in Italia qualsiasi donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di:
• salute
• economici
• sociali
• familiari.
Dal 1978 tale intervento è regolamentato dalla legge 194 “Norme per la tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”, che sancisce le modalità del ricorso all’aborto volontario. L’intervento può essere effettuato presso le strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale e le strutture private convenzionate e autorizzate dalle regioni.
L’IVG può essere praticata dopo i primi 90 giorni quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando siano state accertate gravi anomalie del feto che potrebbero danneggiare la salute psicofisica della donna. In entrambi i casi, lo stato patologico deve essere accertato e documentato da un medico del servizio ostetrico e ginecologico che pratica l’intervento, che può avvalersi della collaborazione di specialisti.
La richiesta di IVG è effettuata personalmente dalla donna.
Nel caso delle minorenni, è necessario l’assenso da parte di chi esercita la potestà o la tutela. Tuttavia se, entro i primi 90 giorni, chi esercita la potestà o la tutela è difficilmente consultabile o si rifiuta di dare l’assenso, è possibile ricorrere al giudice tutelare. Quest’ultimo, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, può autorizzare la donna a decidere l’ interruzione di gravidanza.
Nel caso in cui la donna sia stata interdetta per infermità di mente, la richiesta di intervento deve essere fatta anche dal suo tutore o dal marito, che non sia legalmente separato.
La legge indica chiaramente che l’interruzione volontaria della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite. Pertanto, il medico che esegue l’intervento è tenuto a fornire alla donna tutte le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, oltre che sui procedimenti abortivi.
Secondo la legge 194, i consultori familiari che sono strutture specificamente deputate alla promozione della salute riproduttiva, hanno infatti tra i loro compiti quello di fornire le corrette e adeguate informazioni utili tra le quali:
• informare la donna sui propri diritti sanitari e assistenziali
• informare la donna sulle norme che tutelano le gravide in ambito lavorativo
• contribuire a far superare le cause che possono indurre la donna all’aborto
• fornire la documentazione necessaria e/o indicare le strutture idonee per ottenerla
• fornire adeguate spiegazioni in merito alle tecniche eventualmente utilizzate.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda tutti i paesi del mondo a dotarsi di leggi che legalizzino e regolamentino l’IVG al fine di garantire la libera scelta delle donne e per scongiurare le morti o le gravi complicazioni causate da pratiche abortive clandestine o interventi chirurgici insicuri.
Oggi l’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza) è un intervento del tutto sicuro dal punto di vista medico, gravato da una percentuale di complicazioni, sia immediate che a distanza, davvero minima
Quello delle lunghe attese per sottoporsi ad una IVG è un problema comune quasi all’intero territorio nazionale, con ovviamente alcune aree nelle quali il problema diventa davvero serio.
La legge stabilisce infatti che si possa effettuare l’intervento a distanza di una settimana dalla certificazione medica che attesta lo stato di gravidanza e conferma la volontà della donna di interromperla.
Questo deve avvenire entro la 12° settimana di gestazione. Spesso però i tempi di attesa sono assai più lunghi della settimana prevista che, serve a fornire una pausa di riflessione, aggirandosi in media sulle 2-3 settimane.
È evidente come questa latenza costituisca un disagio in genere, perché, una volta maturata la decisione di interrompere la gravidanza, decisione mai facile, ma anzi spesso sofferta e fonte di sofferenza, doverne procrastinare la realizzazione, “vivendo” una gravidanza che si è deciso di non portare avanti, costituisce un peso psicologico tutt’altro che indifferente per qualunque donna.
In più, è vero che l’intervento è meno impegnativo nelle fasi precoci della gravidanza, anche se le maggiori percentuali di buon esito sono per le IVG effettuate tra la 6° e la 9° settimana.
Ma davvero drammatica diventa la prospettiva delle lunghe attese nei casi in cui la gravidanza viene diagnosticata più tardi, con il rischio di andare oltre il termine previsto dalla legge.
Le cause di queste situazioni sono da ascrivere a fattori molteplici e diversi per ogni singola realtà, ma di certo comune alla maggior parte è la scarsità di personale destinato ai servizi di interruzione di gravidanza. La legge prevede infatti per il personale sanitario (medico e paramedico) la possibilità dell’obiezione di coscienza, che si traduce in una ridotta disponibilità di personale da adibire a questi servizi e ad un sovraccarico importante per i sanitari che si rendono disponibili.
Per le cittadine straniere, comunitarie e non, l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.) garantisce l’assistenza sanitaria prevista per l’IVG e comporta parità di trattamento rispetto alle cittadine italiane.
Alle cittadine straniere non iscritte al servizio sanitario nazionale, siano esse regolari o irregolari, la prestazione sanitaria dell’IVG sarà garantita dietro pagamento alla ASL delle tariffe previste per legge, che possono cambiare a seconda della regione. Per le cittadine straniere sia comunitarie che extracomunitarie, anche irregolari, l’interruzione volontaria di gravidanza rientra fra le prestazioni mediche essenziali e urgenti che deve essere garantita anche a chi non possa permettersi di pagare la prestazione.
L’aborto può essere eseguito secondo due modalità:
● l’intervento farmacologico
● l’intervento chirurgico.
Il primo è una procedura medica, distinta in più fasi, che si basa sull’assunzione di almeno due principi attivi diversi, il mifepristone (meglio conosciuto col nome di RU486) e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro.
Il mifepristone, interessando i recettori del progesterone, necessari per il mantenimento della gravidanza, causa la cessazione della vitalità dell’embrione; l’assunzione del secondo farmaco, della categoria delle prostaglandine, ne determina l’espulsione.
In Italia è possibile ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico dietro richiesta della persona interessata. Il 12 agosto 2020 il Ministero della Salute ha diffuso la circolare sull’aggiornamento delle linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine, passate al vaglio del Consiglio Superiore di Sanità, che il 4 agosto ha espresso parere favorevole al ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico con le seguenti modalità:
● fino a 63 giorni pari a 9 settimane compiute di età gestazionale
● presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital.
L’intervento chirurgico comporta un ricovero in day hospital, viene condotto in anestesia generale e può consistere nell’isterosuzione (aspirazione dell’embrione mediante cannula) oppure nella dilatazione e revisione, pratica meno utilizzata oggi, meglio conosciuta come raschiamento.
La visita di controllo costituisce l’occasione per affrontare con più serenità e consapevolezza la necessità di proteggersi dal rischio di una nuova gravidanza indesiderata e quindi di un altro aborto.
Affidarsi ad una contraccezione sicura, oltre a mettere al riparo la donna dal rischio di gravidanze indesiderate, può aiutare ad avere una maggiore tranquillità e confidenza durante il rapporto sessuale. In particolare è importante per gli adolescenti, che in questa fase della vita esplorano la sessualità spesso senza preoccuparsi di proteggersi.
Vi sono altri aspetti da considerare e che incidono sul vissuto della donna dopo l’esperienza di un aborto. Se dal punto di vista medico-chirurgico non resteranno conseguenze, altrettanto non si può dire per quanto riguarda le “cicatrici” che possono restare a livello psicologico.
La decisione di ricorrere all’aborto, nonostante coloro che per diverse posizioni, principalmente religiose e/o politiche da anni combattono contro la libera scelta delle donne su questo argomento, non è mai facile, per quanto valide, ragionate e ponderate siano le motivazioni che hanno indotto a prenderla.
I tempi e le modalità di elaborazione di questa esperienza sono diversi per quanto diverse sono le donne che la vivono, ma è certo che occorre tempo e lavoro su sé stessi per farlo in maniera efficace.
Perché il rischio quando si “archivia” apparentemente in fretta e con facilità la ferita alla propria identità femminile che l’aborto comporta, è quello di veder tornare fuori quanto non elaborato e sotto forma di disturbi diversi, indecifrabili, ma che hanno in comune l’obiettivo di riportare alla luce i segni di quella ferita e non serve a curare questa ferita il modificare le condizioni esterne a sé (il cambiare partner ad esempio): la sola operazione che può risultare efficace è quella di riportare alla superficie cosciente quanto l’esperienza ha significato.
Le strade possibili per farlo sono diverse, si può completare questo lavoro anche in maniera autonoma, ma certo quello di una psicoterapia può essere in questo caso un valido aiuto per venire a patti con la scelta fatta, non per cancellarla, ma per riuscire a “sistemarla” nel complesso bagaglio di esperienze che ci portiamo dietro.
Giusi Acquaviva, ginecologa. Fabrizio Sapia, ginecologo.